Chi ha detto che i blog sui figli li scrivono per forza le mamme?

Sharing is not caring: perché non pubblico le foto dei bambini sui social

Quando qualche giorno fa ho detto a mia figlia di 11 anni che – dopo aver lasciato a languire in un angolo del web il daddy blog che avevo aperto anni fa – sarei tornato a scrivere di genitori e figli, e che perciò di quando in quando l’avrei usata come cavia per i miei post, la sua reazione non è stata così entusiastica come mi sarei aspettato. Alla fine però abbiamo trovato un accordo da persone civili: mi sono impegnato a cederle una percentuale dei miei compensi. Ma temo arriverà presto il momento in cui mi chiederà di revisionare i pezzi prima di mandarli online: il daughter’s cut.

Non c’entra niente ma invece sì, e ci arriviamo, oggi ho letto un articolo in cui si citano varie sentenze di tribunali italiani, che ribadiscono lo stesso principio: se i genitori sono separati, ci vuole il consenso di entrambi per pubblicare le foto dei figli sui social network, come per molte altre cose. Il ragionamento alla base è che i bambini sono persone, con una propria dignità, dei propri diritti, la propria privacy: solo che finché restano minorenni i diritti sono esercitati da chi ha la potestà genitoriale; e quindi se i genitori stanno insieme si suppone che siano sempre d’accordo, in caso contrario il consenso dev’essere esplicito.

Sembra una cosa da azzeccagarbugli, ma contiene un principio fondamentale: i bambini non sono persone in costruzione, sono persone e basta. E implicitamente torna a farci porre la questione: quanto è giusto per i genitori – separati o meno – condividere le foto dei bambini su Facebook e Instagram? Di foto e bambini ieri ha parlato anche il New York Times nella sua bellissima sezione “parenting”. L’argomento affrontato è più in generale l’uso pervasivo delle foto che facciamo da quando non abbiamo più 24 scatti nel rullino ma 256 giga nel telefonino (the cloud’s the limit); ma ovviamente si parla anche di condivisione social.

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La legge sulle telecamere negli asili non si fa più (ed è una buona notizia)

Mia mamma ha fatto la maestra elementare per 40 anni. Mi racconta spesso che a inizio carriera, una collega più anziana ed esperta la prese da parte e le disse: “Ricordati che verrà il giorno. Perché tu sei una santa e i bambini sono angeli, ma il giorno verrà. Il giorno in cui uno di loro ti farà arrabbiare: rovescerà il banco a terra, prenderà a botte un compagno, prenderà a maleparole te, persino. Verrà il giorno in cui, per qualsiasi motivo, la rabbia e la frustrazione saranno tali che avrai voglia di alzare le mani, che un piccolo ma memorabile schiaffo ti sembrerà una cosa giusta. Ecco, quel giorno ricordati di me, fermati un attimo, vai alla lavagna e scrivi: 27. Ma scrivilo GRANDE”.

(Per apprezzare fino in fondo l’aneddoto, bisogna sapere che: 1) 27, quando esisteva quella cosa chiamata “posto fisso”, era il giorno del mese in cui venivano pagati gli stipendi; 2) nell’immediato dopoguerra, per una persona che era la prima diplomata di sempre nella sua famiglia, considerazioni economiche come il rischio di perdere il lavoro per un momento di rabbia potevano essere più efficaci di avvertimenti morali; 3) mia mamma è la persona più mite del mondo e per carattere e mentalità le botte non le avrebbe mai neanche minacciate, né a scuola né a casa, pur essendo cresciuta in un’epoca in cui erano tollerate come “mezzi correzione”.)

Questa storia mi torna in mente ogni volta che sento parlare di telecamere nelle scuole. Negli ultimi giorni per fortuna se n’è parlato soprattutto in negativo: la proposta di legge che era stata approvata alla Camera ai tempi del primo governo Conte, sembra arenata in una commissione del Senato, senza che ci sia tanta voglia di darle impulso. Lo stesso ministro Fioramonti ha dichiarato che non ha senso partire a razzo e che ci sono “forti dubbi sui costi” (anche lui evidentemente ritenendo più efficaci le considerazioni economiche di quelle morali). Ma sembra proprio che sia cambiata l’aria, con il Conte bis. Eppure io me lo ricordo quando un anno fa c’è stato il primo voto: approvazione bipartisan in Parlamento, sollievo generale sui social, servizi trionfalistici al tiggì, pochissime voci che osavano avanzare dubbi. Oggi invece restano solo i soliti giornalacci di estrema destra, che mi fa ribrezzo anche linkare: uno di questi addirittura ha avviato una raccolta firme. L’aria potrebbe cambiare di nuovo eh, siamo in Italia, e allora vediamo: qual è il problema?

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Figli che crescono

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La grande che alle 11 di sera è ancora sveglia (uff) e ti fa Dai papà, fammi vedere quella cosa dei mammut, e non si tratta dell’ennesimo sequel dell’Era glaciale, ma di un longform sulla de-estinzione e il riscaldamento globale.

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Non è la prima volta che ti capita, ti era successo anche con l’altra, ma con il piccolo non ancora, ed è sempre un flash.
Lo porti ai giardinetti, e mentre lui si arrampica sullo scivolo vedi una bambina, ma molto più grande, e che tu sei sicuro di non aver mai visto, lo guarda e dice Oh, ma quello è Francesco!
È una compagna dell’asilo, ovvio, eppure rappresenta un piccolo terremoto. Lui conosce delle persone, delle persone che non sono la sua famiglia, non sei tu la mamma o la sorella, e non sono neanche dei parenti, neanche degli amici tuoi, gente che tu gli hai “presentato”. È il momento in cui ti rendi conto che sarà sempre più così, che nonostante la sua piccolezza non è più un prolungamento della tua esistenza – che non lo è mai stato se non nella tua testa.
Tutte cose che un genitore sa, razionalmente, ma appunto: razionalmente. Non vuoi tenerlo sempre legato a te, anzi. Ma vederlo succedere è un’altra cosa. Avrà amici che per te sono estranei, gli piaceranno cose che tu non conosci, formulerà pensieri che tu potrai capire, o addirittura condividere, ma che potresti non sapere mai.
Banalità. Ma è il momento, ne capitano non più di 3 o 4, in cui ti colpisce l’evidenza: non avete messo al mondo un cucciolo, ma una persona. Hai creato, hai contribuito a creare, un individuo autonomo, una vita: è la cosa più frequente del mondo, lo fanno miliardi di persone, e pure ti pare sempre la più assurda.
Sei felice, se così si può dire – fino a che non pensi a quante volte quell’individuo userà questa sua commovente autonomia per mandarti a quel paese.

 

Il caffè degli altri

Ieri il piccolo, immediatamente dopo pranzo, ha iniziato come fa sempre a piangere e a dimenarsi dicendo che voleva andare subito a nanna. La mamma, santa pazienza, stava per accontentarlo, quando è successo. Di botto si è fermato, è stato un attimo a pensare, e poi ha detto: E tauà? Che in ciccillese significa: E il caffè? Ovvero, e il caffè che di solito vi prendete dopo mangiato e a causa del quale mi chiedete sempre di aspettare prima di portarmi a dormire? Oggi non lo volete?

Ora io non vorrei stare troppo a filosofare, ma secondo me questo è un passaggio fondamentale, quelle cose che segnano l’abbandono dello stadio animale, o alieno, o magico, comunque ultra umano, e l’ingresso nella comunità. Molto più che imparare a parlare e a camminare, o a scrivere e a contare, che mi sembrano tutte delle conseguenze. È il momento in cui ci si accorge che gli altri sono delle persone come te, con dei gusti e delle esigenze che sono diversi dai tuoi, ma che per loro sono importanti come per te le macchinine con le porte che si aprono. Che gli altri sono delle persone, e non delle marionette nel teatrino apparecchiato apposta per te dalla dea Mamma.
(Succede adesso, tra i due e i tre anni, d’altra parte tre anni è una soglia riconosciuta, fino a quel momento i bambini sono per i giapponesi delle divinità, e per i produttori di giocattoli degli aspiranti suicidi). Da qui, da questa consapevolezza, nasce il bene e nasce il male: l’amicizia e l’amore e la generosità, ma anche i sensi di colpa, la cazzimma, il dolo intenzionale.
Da questo momento sta un po’ più a te, e un po’ meno a noi. Benvenuto, Ciccillo

L’idioma avito

– Papà, nunn’aggio ‘na penna!

(Massimo rispetto per Tata* che tenta di apprendere l’idioma avìto, diciamo che può solo migliorare)

 

*The daughter formerly known as Patata. Non è un nuovo personaggio/figlio – siamo arrivati a due  e va benissimo così – ma il modo in cui Ciccillo chiama Patata. D’altra parte questo nome a lei non era mai piaciuto. Perciò d’ora in poi, Tata sia!

Il piccolo sonno

Dormi, piccina?

No. Ero immersa nei miei pensieri.

Ah. E a cosa pensavi, se posso?

A dormire!

Uhm. Mi sa che non è un buon metodo. Sforzarsi di dormire non è il modo migliore di riuscirci.

Eh?

Dico, che se ti concentri troppo sul sonno, quello non arriva. È una regola generale della vita, succede con un sacco di cose. Quando hai un desiderio, ti accadono diecimila cosa belle, ma non quello. Se vuoi qualcosa, non devi pensarci.

Non ti seguo.

È complicato. Te lo spiego domani.

No, non capisco nel senso che non sono d’accordo. Scusa, tu dici sempre che per addormentarsi bisogna pensare a una cosa bella. Dormire è bello. Quindi…

Una cosa che ho imparato

Comunque, in questi anni di crisi, mondiale e personale, hai capito una cosa. Che niente si può dare per scontato, nulla è per sempre, nessuna posizione è acquisita una volta per tutte.

Questa è la metà vuota del bicchiere. L’altra metà ti dice che però, per fortuna, c’è spesso un’altra strada da prendere, un’inversione a U da azzardare, un rischio da correre. E soprattutto c’è sempre da imparare: per necessità e per curiosità, con modestia e spirito critico, imparare e imparare: cose nuove, cose totalmente diverse da quelle che hai fatto finora, cose che non avevi mai immaginato di poter vedere succedere tra le tue mani; imparare imparare imparare: anche nelle situazioni più assurde o deprimenti, anche dai personaggi più ignoranti o ingenerosi, anche e soprattutto dalle persone più giovani o più inesperte.

Ieri, per esempio, sulla soglia delle quarantuno primavere, ho finalmente imparato, sotto la paziente guida della mia figlia maggiore, a fare le bolle con la gomma masticante. Compagni delle medie attenti, ancora un po’ e mi metto in pari.

Giugno

A 10 anni:
Domani finisce la scuola!!! Evviva!!!

A 20 anni:
Domani finisce la scuola, e io no.

A 30 anni:
Domani finisce la… che? Boh…

A 40 anni:
Domani finisce la scuola?!? Aiuto.

Lettera ai figli sul precariato

Bambini cari,

lo so che a voi di questa cosa della crisi economica, del lavoro, della precarietà prima finanziaria e poi mentale in cui nuotiamo, e speriamo non affoghiamo, a voi dicevo di questa cosa non ve ne può importare proprio, anzi. Anzi tutto sommato siete contenti perché papà ha più tempo per stare con voi, con te Patata per portarti ai giardinetti o giocare alle avventure delle bambole che però erano fate che però erano sirene che però erano incinte, e con te Ciccillo per cambiarti i pannolini e tenerti in braccio tra una sessione di allattamento e l’altra. Anzi in realtà non siete neanche più contenti, perché non avete un termine di paragone, non c’è stato un prima in cui il papà aveva un lavoro normale, perché tutto, ma proprio tutto, è iniziato nel 2008, il maledetto 2008 della crisi mondiale, il benedetto 2008 della nascita di Patata, e non potete essere più contenti perché papà sta più tempo con voi, perché “più tempo” rispetto a che cosa?, non avete, e giustamente, un’idea di quanto sia il tempo “normale” che un genitore sta fuori casa, non ne sapete nulla e menomale, tranne quando per esempio a scuola Patata ti hanno fatto studiare una poesia per la festa del papà dove c’era scritta una cosa tipo “tu che stai tutto il giorno fuori per lavoro”, ma dove vivono ste maestre, negli anni ’50?, non siete più contenti degli altri bambini o di quanto dovreste essere, e va bene così.

Tu poi, Ciccillo, ti è andata pure male, almeno rispetto a tua sorella, perché mentre lei mi ha avuto a casa, e quando dico a casa intendo a casa, ventiquattr’ore su ventiquattro, per i suoi primi cinque anni, tu carino sei arrivato quando qualcosa stava cambiando, ehi attento, non dico che di punto in bianco ho trovato lavoro, non sia mai, però qualcosa in più rispetto al nulla di prima faccio, sicché qualche volta, o spesso, sono via, sicché mi stanno venendo dei grandi sensi di colpa perché ti sto dedicando meno attenzioni, e di nuovo, “meno” rispetto a cosa?, esiste una regola, una normalità, un minimo sindacale, no, certo, allora diciamo meno rispetto a quello che ha avuto tua sorella, non in termini di amore ma in termini di tempo sicuramente sì, ma va bene così.

Che poi vedete, bambini belli, è proprio questa, riflettevo mentre scrivevo quello che ho appena scritto, è questa la fregatura dei tempi precari in cui viviamo, che non sai mai cosa aspettarti e non riesci a vivere appieno il momento presente, perché la mente, oh ci hanno raccontato che la nostra mente è potentissima e velocissima, ma non è vero, o per lo meno la mia non lo è, la mia mente si adegua ai cambiamenti con molta lentezza, e difficoltà. Quando stavo a casa, dopo aver perso il lavoro, dopo che era nata Patata, dicevo tra me e me sì che bello posso stare con mia figlia e aiutare la mia compagna, ma era un modo per consolarmi, non solo ma anche un modo per consolarmi, perché un’altra parte di me era disperata per il fatto che non stavo lavorando, e soprattutto angosciata dal pensiero che chissà quando, chissà se, questa situazione sarebbe cambiata. E quindi non me ne vedevo bene, cioè in tutte le cose belle, i viaggi i weekend le vacanze lunghe i ponti inventati mentre tutti gli altri erano al lavoro, o anche semplicemente le mattine passate al parco o a cucinare, in tutte queste cose c’era sempre un tarlo, un pensiero di fondo, sottile ma costante, che rovinava o sporcava tutto, non te lo meriti, diceva la vocina, non sei qui per scelta ma perché non hai nient’altro da fare. Adesso, invece, che tra l’arrivo di Ciccillo e i nuovi impegni – sei anni dopo, di nuovo una nascita mi porta un cambiamento totale anche sotto altri punti di vista, di nuovo solo-una-coincidenza? – adesso che non ho un minuto, certe volte, per fare una pipì, ah come rimpiango i bei tempi della disoccupazione, e quindi, e di nuovo, questa nuova situazione così desiderata e attesa, ora non me la godo. Ma va bene così.

Ma una cosa, bambini miei, una cosa ve la devo dire, anche se questa è una cosa che non si dice, che non sta bene, che è peggio di una parolaccia. La cosa è che a me dei soldi non me ne è mai importato niente. Non solo non sono una fissazione, per me, i soldi, ma proprio non ci penso. Cioè, lo so che nella nostra società, nel nostro sistema di capitalismo maturo (o marcio, direbbe qualcuno), nella nostra realtà dei soldi purtroppo non se ne può fare a meno, ma appunto ogni volta che ci penso mi viene da aggiungere purtroppo. E non è che non mi piacciano gli agi e le comodità, il lusso no, veramente non mi piace, ma come ha detto una volta un cantante che mi piace assai, voglio giusto quei soldi che mi permettano di vivere tranquillo, di pagare le bollette, fare qualche viaggetto con la famiglia, invitare a cena a casa gli amici. Questa cosa però qui da noi è peccato, peccato mortale: non il fatto di non guadagnare molto, ma il fatto di non voler guadagnare molto, è una cosa che la maggior parte della gente non capisce, peggio che non sopporta. Ma io non ci posso fare niente, non è stata una scelta, sono fatto così, e perciò non vi posso neanche dire fate come me, prendete esempio, non solo perché non sono convinto che sia la cosa giusta per tutti, ma proprio perché credo che ognuno abbia la sua strada, il suo modo di essere. Quello di cui mi sono reso conto però, è che al di là dello status symbol dato dai soldi, da quanti appartamenti o da quale macchina hai, al di là di quello, vivere in una società, cioè vivere in mezzo alla gente, significa avere un ruolo, una funzione, all’interno di un contesto, e molto spesso, quasi sempre, questa funzione è data dal lavoro, per cui non avere più un lavoro, o non riuscire più a fare il proprio lavoro, significa smarrimento, crisi di identità, significa non sapere più che ci stai a fare, e chi sei. Ma no, ma che cavolo sto dicendo, non è così, non è che la pressione sociale può arrivare fino a questo punto, o meglio non è giusto che lo faccia: per me questa cosa si traduce in un fatto più personale, di soddisfazione, per me quello che faccio dev’essere utile a qualcun altro, in qualche modo, e che poi ciò comporti un ritorno economico o meno è secondario, e allora per questo a un certo punto ho smesso di fare il lavoro che facevo prima, perché mi sembrava non avesse più senso, non desse qualcosa di utile o di piacevole a nessuno, nemmeno a me, e me ne sono messo a fare un altro completamente diverso, di lavoro dico, per niente facile, per niente ovvio che vada bene, per ora, ma va bene così.

E quindi, alla fine, qual è la morale di tutto questo, qual è l’insegnamento che dovrete trarne, quando leggerete questa lettera con tanti paroloni e pochi punti? Perché una morale ci dev’essere, così ci hanno detto, no?, ci dev’essere una frasetta finale che faccia da monito, alla fine di una favola, come alla fine di una vita: non è possibile, non è sufficiente dire che è stata una bella storia – una bella favola, una bella vita – no, che uffa però. Allora la morale qual è, che nella vita nessuno ti aiuta, ognuno per sé come nella giungla? Che questa è una valle di lacrime e bisogna aspettare il regno dei cieli per essere felici? Che non bisogna scendere a compromessi, forzare la propria natura, leccare i piedi a chi serve, pur di ottenere qualcosa, e si deve mantenere la schiena diritta anche a costo di non riuscire a mantenere i propri figli, come ha fatto il vostro papà? Non mi convince nessuna, neanche quest’ultima, perché ancora una volta, ognuno fa come può, non come merita. L’unica cosa che mi sento di dirvi, senza dubbio, è quello che disse un grande scrittore che a me mi piace assai: che vi toccheranno tempi duri in cui vivere, come a tutti. E va bene così.

Papà

(Questa lettera è stata scritta su invito di una studentessa in Psicologia dello Sviluppo e dell’educazione dell’Università degli studi di Padova e farà parte della sua tesi di laurea, che indaga gli effetti della precarietà lavorativa sulla relazione tra padre e figlio partendo dall’evoluzione che il ruolo della figura paterna ha avuto nel tempo)

Amore di papà

[Parental advisor: post ad alto contenuto di lacrimevole pathos]

Non capisci davvero l’amore di tuo padre per te, finché non nasce tuo figlio.

Una frase tremendamente banale, e come tante banalità, tremendamente vera. Sono sei anni, da quando è nata Patata, che la vado ripetendo fino alla noia: parlandone, scrivendola, qui sul blog come nel libro. Una tremenda banalità, che però ogni volta è impressionante da provare in prima persona, sentire sotto la propria pelle. Anche dopo sei anni. Anche quando ti nasce un altro figlio. La sensazione fisica – non mentale, non si tratta di altruismo, no – che ti porta ad anteporre al tuo benessere, il suo: alla tua sazietà, la sua: alla tua stessa vita, la sua. E va bene, lo sappiamo, ci sono dei precisi motivi scientifici per tutto questo: il gene egoista, il perpetuarsi della specie, tutto vero. Però incomprensibile finché non lo vivi. Infatti, quando me lo diceva mio padre, non ci credevo. O meglio, non capivo.

Ma il rapporto, e quindi l’amore, tra genitori e figli è per sua natura asimmetrico, squilibrato. Sia in un senso che nell’altro. Non è uguale, paritario, come l’amore tra compagni, o quello tra amici. Dove ci si è conosciuti che si aveva più o meno la stessa età, si era più o meno nello stesso momento della vita. Dove io sono per lei quello che lei è per me, più o meno, in teoria almeno. Per i genitori, un figlio è tutto, e rappresenta uno sconvolgimento tale della vita, che davvero si fa fatica a volte a ricordare come si era, prima (cosa facevamo? come impiegavamo tutto quel tempo libero? dove lo mettevamo il passeggino? ah già, non c’era nessun passeggino). Ma di fatto, ognuno di noi aveva una vita, baby, prima di conoscere suo figlio. Invece per un figlio, i genitori sono veramente tutto, e rappresentano la vita stessa, perché non c’era un prima.

Terra terra: mio padre quando ha incontrato me aveva 47 anni (ebbene sì, si è spicciato tardi). Io quando ho conosciuto mio padre avevo zero anni. E l’ho avuto nella stessa casa, alla stessa tavola, tutti i santi giorni, per ventisei anni, finché non sono andato a vivere in un’altra città. E poi per altri quattordici anni l’ho avuto a portata di mano: al telefono, nei frequenti incontri, anche solo nel pensiero.

E’ un’altra enorme ovvietà. Talmente ovvia che non ci pensi, non te ne accorgi. Fino a quando la presenza – costante, saltuaria o solo metaforica – non si muta in assenza: tangibile, definitiva, irrimediabile.

Non capisci davvero l’amore per tuo padre, finché non muore tuo padre.

[Oh, ve l’avevo detto]